Il tempo dei meloni
La prima
vittima, nel lontano 1358, fu Alberto II, imperatore d’Austria. La seconda, nel
1471, papa Paolo II, seguito nei primi anni del Seicento da un altro pontefice,
Clemente VIII. Ma anche due re di Francia, Enrico IV e Luigi XIV, stavano per
lasciarci le penne. Per tutti lo stesso killer: il melone. O, per meglio dire,
l’ingordigia di quegli illustri golosi, con la complicità di una scarsa igiene
alimentare.
«Questi
reiterati accidenti diedero al melone una pessima reputazione», scrive
Jean-Marie Pelt, professore di biologia vegetale all’Università di Metz, nel
suo libro Des légumes
edito da Fayard. Ma il frutto succoso e rinfrescante della fatale cucurbitacea
era troppo attraente per rinunciare al suo consumo.
Così, con una
maggiore attenzione alle condizioni di conservazione, particolarmente difficili
in un legume composto prevalentemente d’acqua e zucchero, il melone ha
continuato a essere uno dei cibi più appetitosi e ricercati della cucina
estiva.
Ma «di melon ghe
n’è pocch de bon» dice un proverbio milanese, alludendo alla difficoltà di
trovarli maturi al punto giusto. Al momento dell’acquisto, la regola è quella
di tastare la cima, opposta all’innesto del gambo, in modo da sentire una
leggerissima depressione, segno inequivocabile di maturità. Ma più di tutto
serve un naso addomesticato a riconoscere la sottile fragranza di un buon
melone.
Proveniente dal
Sudafrica, esso è l’unico legume originario di quelle regioni australi dove
ancor oggi, nelle oasi, capita d’assaggiare dei frutti poco più grandi di una
mela. Nel V secolo A. C. sulle rive del Nilo era già praticata la coltura di
meloni più grossi e zuccherini, selezionati dai primi ibridatori egiziani. Da
lì le melonaie si diffusero nel corso del successivo millennio nelle regioni
asiatiche, da dove giunsero sulle coste del Mediterraneo al seguito dei monaci
armeni che venivano a Roma dall’Oriente.
In Italia nel
Quattrocento si coltivavano negli orti pontifici di Cantalupo le prime varietà
di Cucumis melo, di
forma rotonda o schiacciata, dette per l’appunto Cantalupi. Questi meloni sono
coltivati ancor oggi nel nord del paese, in particolare nel mantovano, dove
accanto alle varietà tradizionali si trova il Cantalupo nero dei Carmelitani,
il Rospo di Bologna, oltre ai cosiddetti retati o reticolati, di forma ovale o
allungata, più difficili da conservare dei primi.
Vi sono infine i
meloni a maturazione tardiva, lisci, molto conservabili ma poco profumati come
testimonia lo stesso nome della varietà più nota, Gelato d’inverno.
Gran gourmet di
meloni, Alexandre Dumas padre, l’autore di romanzi famosi come I tre
moschettieri o Il
Conte di Montecristo,
offrì alla città di Cavaillon tutte le sue opere in cambio di una fornitura
annua di dodici squisiti poponi coltivati nelle terre del contado. Insomma invece
della primogenitura per un piatto di lenticchie, qui lo scambio riguardava i
diritti d’autore per un buon piatto di prosciutto e melone.
Se questo frutto
dorato deve il suo valore alimentare in particolare agli zuccheri contenuti
nella polpa, dal punto di vista ecologico questa cucurbitacea, proprio come i
cetrioli e le angurie, è un pozzo vegetale capace di trattenere notevoli
riserve d’acqua per la sua e la nostra sopravvivenza nei mesi più caldi
dell’anno. Sicché, anche nelle regioni più aride, dove cresce un melone
possiamo essere certi che nel sottosuolo si nasconde una vena d’acqua.
Marta Isnenghi
Articolo pubblicato da Marta Isnenghi su Italia Oggi, nella rubrica "Pollice verde" il 31 luglio 1993.
Che bello, pensa che io il melone lo mangiavo senza chiedermi da dove provenisse mentre ora lo so. Io lo trovo un frutto squisito quand'è maturo al punto giusto. Altrimenti è troppo acquoso.
RispondiEliminaCiao,
Chiara
Grazie, sto provando a inserire altri argomenti, ma sono davvero impedita.
EliminaScrivici presto.
Marta