giovedì 2 agosto 2012

Marta tra i fiori: Il tempo dei meloni


Il tempo dei meloni
 

La prima vittima, nel lontano 1358, fu Alberto II, imperatore d’Austria. La seconda, nel 1471, papa Paolo II, seguito nei primi anni del Seicento da un altro pontefice, Clemente VIII. Ma anche due re di Francia, Enrico IV e Luigi XIV, stavano per lasciarci le penne. Per tutti lo stesso killer: il melone. O, per meglio dire, l’ingordigia di quegli illustri golosi, con la complicità di una scarsa igiene alimentare.

«Questi reiterati accidenti diedero al melone una pessima reputazione», scrive Jean-Marie Pelt, professore di biologia vegetale all’Università di Metz, nel suo libro Des légumes edito da Fayard. Ma il frutto succoso e rinfrescante della fatale cucurbitacea era troppo attraente per rinunciare al suo consumo.
Così, con una maggiore attenzione alle condizioni di conservazione, particolarmente difficili in un legume composto prevalentemente d’acqua e zucchero, il melone ha continuato a essere uno dei cibi più appetitosi e ricercati della cucina estiva.
Ma «di melon ghe n’è pocch de bon» dice un proverbio milanese, alludendo alla difficoltà di trovarli maturi al punto giusto. Al momento dell’acquisto, la regola è quella di tastare la cima, opposta all’innesto del gambo, in modo da sentire una leggerissima depressione, segno inequivocabile di maturità. Ma più di tutto serve un naso addomesticato a riconoscere la sottile fragranza di un buon melone.

Proveniente dal Sudafrica, esso è l’unico legume originario di quelle regioni australi dove ancor oggi, nelle oasi, capita d’assaggiare dei frutti poco più grandi di una mela. Nel V secolo A. C. sulle rive del Nilo era già praticata la coltura di meloni più grossi e zuccherini, selezionati dai primi ibridatori egiziani. Da lì le melonaie si diffusero nel corso del successivo millennio nelle regioni asiatiche, da dove giunsero sulle coste del Mediterraneo al seguito dei monaci armeni che venivano a Roma dall’Oriente.

In Italia nel Quattrocento si coltivavano negli orti pontifici di Cantalupo le prime varietà di Cucumis melo, di forma rotonda o schiacciata, dette per l’appunto Cantalupi. Questi meloni sono coltivati ancor oggi nel nord del paese, in particolare nel mantovano, dove accanto alle varietà tradizionali si trova il Cantalupo nero dei Carmelitani, il Rospo di Bologna, oltre ai cosiddetti retati o reticolati, di forma ovale o allungata, più difficili da conservare dei primi.
Vi sono infine i meloni a maturazione tardiva, lisci, molto conservabili ma poco profumati come testimonia lo stesso nome della varietà più nota, Gelato d’inverno.

Gran gourmet di meloni, Alexandre Dumas padre, l’autore di romanzi famosi come I tre moschettieri o Il Conte di Montecristo, offrì alla città di Cavaillon tutte le sue opere in cambio di una fornitura annua di dodici squisiti poponi coltivati nelle terre del contado. Insomma invece della primogenitura per un piatto di lenticchie, qui lo scambio riguardava i diritti d’autore per un buon piatto di prosciutto e melone.

Se questo frutto dorato deve il suo valore alimentare in particolare agli zuccheri contenuti nella polpa, dal punto di vista ecologico questa cucurbitacea, proprio come i cetrioli e le angurie, è un pozzo vegetale capace di trattenere notevoli riserve d’acqua per la sua e la nostra sopravvivenza nei mesi più caldi dell’anno. Sicché, anche nelle regioni più aride, dove cresce un melone possiamo essere certi che nel sottosuolo si nasconde una vena d’acqua.


                                                                                   Marta Isnenghi






Articolo pubblicato da Marta Isnenghi su Italia Oggi, nella rubrica  "Pollice verde" il 31 luglio 1993.






2 commenti:

  1. Che bello, pensa che io il melone lo mangiavo senza chiedermi da dove provenisse mentre ora lo so. Io lo trovo un frutto squisito quand'è maturo al punto giusto. Altrimenti è troppo acquoso.
    Ciao,

    Chiara

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    1. Grazie, sto provando a inserire altri argomenti, ma sono davvero impedita.
      Scrivici presto.

      Marta

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