Ieri,
mentre scrivevo del clerodendro, mi è tornato in mente l’albero solitario del
giardino di corso Monforte 23. Lo vidi nell’estate di dieci anni fa, durante
una visita alla Fondazione Fontana. Un’occhiata fuggevole, ma non l’ho più
dimenticato.
Allora
avevo una rubrica sul Corriere della Sera, intitolata “Storie di passione” e
fra altri pezzi pubblicai questo breve racconto che ha per protagonisti Teresita e Lucio Fontana.
L’amore
che superò gli oceani
Occhi chiari
come acqua di torrente, ovale dorato, labbra vermiglie. Al collo un filo di
giaietto nero e lucente. Così Teresita Rasini appare in un mosaico del 1938
firmato da Lucio Fontana.
Lucio Fontana, Ritratto di Teresita, 1938, mosaico policromo. Fondazione Fontana |
La ragazza ogni
mattina viene da Lodi a Milano e ticchettando raggiunge il laboratorio di via
Ausonio all’angolo con via de’ Amicis. Fa la «piscinina» in una delle più
eleganti boutique di cappelli della città. A forza di piegar feltri, velluti e
gale, d’attaccar piume o velette piene di mistero, la sera le dolgono le mani.
Ma non c’è tempo
di pensarci, il treno riparte alle 19 da Porta Romana.
Nello studio dirimpetto,
con la finestra sul cortile, lavora un giovane scultore. Il suo nome è Emilio,
ma in famiglia lo chiamano Emiliuccio, abbreviato in Lucio. Viene
dall’Argentina, dov’è nato a Rosario de Santa Fè nel 1899 da genitori d’origine
italiana. Ha uno sguardo di fuoco, che contrasta con l’andatura indolente e il
sorriso alla Clark Gable.
Teresita lo
osserva furtiva e intanto infila il «rametto» nei feltri per farli stare in
forma. Lucio, audace, non le toglie gli occhi di dosso mentre modella
terracotte sanguigne, così diverse dalle algide sculture di Adolfo Wildt, suo
maestro a Brera.
La passione non
ha bisogno di parole. Così una sera, chiusi studio e bottega, se ne vanno
insieme, giovani amanti silenziosi nella città piena di luci.
«Quella notte»
racconterà Teresita, «persi l’ultimo treno per Lodi».
Comincia così la
storia d’amore fra uno dei più importanti artisti del Novecento e la timida
modista.
Quando Fontana,
dopo gli anni di Albisola dove si cimenta con la ceramica, nel ‘40 s’imbarca
per l’Argentina, Teresita resta sola.
Giunge
d’oltreoceano l’eco dei successi di Lucio, che con il busto de La Italiana, vince nel ’41 il premio della Cultura.
Durante la guerra Teresita lo aspetta, con nostalgia e trepidazione.
Finché nel ‘47
lui ritorna. È l’anno del Primo Manifesto dello Spazialismo, firmato da Fontana, Kaisserlian, dalla
scrittrice Milena Milani e dal filosofo Beniamino Joppolo.
Si sposano nel
1952, nella chiesa del Redentore in via Stradivari.
Lucio Fontana ha
aperto un atelier in corso Monforte 23, nel cortile di Palazzo Cicogna,
affacciato sul giardino pervaso l’estate dal profumo di vaniglia del
clerodendro.
È là che taglia
lunghe tele bianche, è là che crea i suoi primi, celeberrimi «buchi». Teresita,
che ora ha una boutique tutta sua in via Piccinni, sembra intimorita e quasi
distaccata dall’attività del marito. Ma sarà lei, quando nel ‘68 Fontana muore
a Comabbio, vicino a Varese, nella villa bianca che ricorda le estancie argentine, a prendersi cura delle sue opere.
Dopo aver
proposto a Milano la donazione di un cospicuo numero di quadri e sculture del
maestro, delusa dall’inefficienza del Comune, nel 1982 istituisce la Fondazione
Fontana. Perché il suo gaucho continui a vivere.
Marta Isnenghi
Questo articolo
è stato pubblicato da M. Isnenghi sulle pagine milanesi del Corriere della Sera
domenica 18 agosto 2002, nella rubrica “Storie di passione”.
La foto
pubblicata è tratta dal volume Lucio Fontana, curato per Electa da E. Crispolti
e R. Siligato per la mostra romana del 1998 a Palazzo delle Esposizioni, di cui
era presidente Renato Nicolini.
tags
Lucio Fontana,
mosaico, «piscinina», la finestra sul cortile, Rosario de Santa Fè, Clark
Gable, «buchi».
Che bello! È una bellissima scultura, mi piacciono i suoi occhi...
RispondiEliminaCiao, un bacio,
Chiara