sabato 29 settembre 2012

Verde que te quiero verde

Fonte del Giardino della Fedeltà, miniatura dal manoscritto di Vâki’at-i Baburi, 1590



Dalla Fonte sgorgano quattro ruscelli che donano l'acqua alle acequia

Questa estate, per diversi motivi, non ho fatto vacanze.
Neanche un giorno al mare, neanche un microviaggio.
Così ho ripercorso le tappe di altri viaggi, che mi piacerebbe rifare. Come i dieci giorni trascorsi con mio marito nell’ottobre di qualche anno fa nel sud della Spagna. In quella regione magnifica e tiepida persino d’inverno, grazie alla sua latitudine e al tepore del Mediterraneo.

Ma dove inizia questo nostro mare, cadenzato da grandi isole e circondato da terre che hanno caratteristiche comuni e al tempo stesso precise e diversissime identità? Racconta lo storico francese Fernand Braudel che “il mare di mezzo” si estende «dal primo ulivo che si raggiunge arrivando dal Nord ai primi palmeti che si levano in prossimità del deserto. Per chi “scende” dal settentrione - precisa Braudel - l’appuntamento con il primo ulivo è subito dopo Donzère, sul Rodano. Il primo palmeto compatto sorge appena dopo la porta d’oro di El Qantara nell’Atlante sahariano. Appuntamenti del genere, che incantano e prendono il cuore, sono in serbo lungo tutto il perimetro del mare Interno. Qui ulivi e palme montano una guardia d’onore».

Ma c’è una regione d’Europa dove, insieme agli ulivi e alle palme, sono stati addomesticati tutti gli alberi e gli arbusti capaci, in un colpo solo, di evocare la storia, la poesia e la scienza del giardino mediterraneo: è l’Andalusia.
I primi fiori che ci vengono incontro quando dall’aeroporto di San Pablo s’arriva a Siviglia sono i grappoli di Jacaranda mimosifolia: grandi macchie color lavanda che risaltano come tanti Oiseau bleu sulle fronde minute di queste leguminose lungo le avenida cittadine.
La nostra vacanza d’ottobre inizia un martedì  alle nove del mattino.
Dopo aver sorvolato immensi uliveti e aranceti, quando atterriamo c’è il diluvio universale. Bagnati fradici non resta che rifugiarci nel piccolo albergo del Ventaglio, antico palazzo del centro trasformato in locanda. Nel patio una Madonna col Bambino in maiolica ci dà il benvenuto. E non è che il primo degli incontri con il sacro che ci accompagneranno durante il viaggio.

Una schiarita nel pomeriggio ci consente di andare alla cattedrale sovrastata dalla Torre della Giralda. La chiesa, una delle più grandi del mondo, sorge là dove nel XII secolo si trovava la moschea degli Almohadi, la dinastia di berberi musulmani che dominarono il Maghreb e la Spagna nel XII e nel XIII secolo. Dalla Puerta del Perdon, il portale islamico a ferro di cavallo che costeggia il lato settentrionale, si entra nel Patio de los naranjos, il commovente cortile con i 66 alberi d’arancio collegati da un’antica griglia geometrica di acequia (dall’arabo al-saqiya). 

Siviglia, la cattedrale. Dalla Porta del Perdono, retaggio dell'antica moschea,
si entra nel Patio degli aranci

Come lampadine s'accendono le arance sui 66 alberi del patio nella cattedrale di Siviglia

Cordoba, la Mezquita. Nel Patio degli aranci, dove un tempo c'era il minareto dell'antica moschea,
i canaletti chiamati acequia portano l'acqua da un arancio all'altro

Tracciate fra un albero e l’altro, dove s’allargano a cerchio, queste canalette per l’irrigazione erano già in uso settecento anni prima di Cristo nei giardini pensili di Babilonia, che venivano bagnati con le acque dell’Eufrate. 
Passato ai persiani, il sistema venne poi diffuso dai romani in tutte le provincie del Mediterraneo. Ma furono gli arabi nel XII secolo a ritrovare le tracce degli acquedotti romani, a restaurarli e ad estenderli, creando grandi, piccole e medie canalizzazioni collegate fra loro da cisterne per l’acqua dette alberca (dall’arabo al-birka).
Queste meraviglie di ingegneria idraulica si vedono in tutta l’Andalusia.

Siviglia. Luci e ricami di marmo nello splendore dell'Alcazar
Poco lontano dalla cattedrale di Siviglia e dai suoi fiammeggianti altari barocchi, si aprono i Giardini del Real Alcázar, dove ancor oggi scendono re Juan Carlos e la regina Sofia quando vengono nel sud della Spagna.
Dai Giardini dell'Alcazar la vista spazia sino alla cattedrale con la torre della Giralda

Fra le rose e la bella pavimentazione gorgoglia una piccola fontana a forma di stella
Sono giardini incantevoli, cresciuti a partire dal X secolo intorno alla Casa del Governatore, primo nucleo della fortezza. Perfettamente curati da una ventina di giardinieri, la prima volta che ci si va, come spesso succede nei luoghi dove è passata la Storia, si ha l’impressione di perdersi in un labirinto di stili e di linguaggi, dai patii che affondano le radici nell’Islam ai padiglioni cinesi, dai roseti ai giardini delle Dame e dei Poeti, sino alla pergola di Carlo V, magico luogo di contemplazione.

Sorridente jardinera dell'Alcazar di Siviglia con gatto ben nutrito
Ma se si torna una seconda volta, viene subito il desiderio di fermarsi nelle stanze verdi e profumate vicine al palazzo, fra vasche d’acqua circondate da vasi di rose, dature, gelsomini e melograni che si arrampicano in alto, fin sugli spalti dell’antica fortezza.

Siviglia, l'eleganza dei Giardini dell'Alcazar  fra palme e fragranti gelsomini

Vasca d'acqua circondata da poetici vasi di rose nei Giardini dell'Alcazar di Siviglia
Dature in fiore dietro una seduta di maiolica nel Giardino delle Danze all'Alcazar
In tanta magnificenza si sente insomma il piacere di sedere sulle panchine di maiolica calde di sole, in piccoli spazi domestici e gentili: una sorta di buen retiro che, come dimostra anche la splendida fontana incastonata fra i gradoni del Patio de los Venerables, nel cuore della città, sembra un leitmotiv dei giardini andalusi.

Patio del'Hospital de los Venerables, nel cuore di Siviglia. La fonte è situata nella parte bassa della gradonata di maiolica per poter attingere facilmente all'acqua della falda


 Granada

Cappella Reale. Hans Memling, La Vergine con il Bambino, Santa Barbara e Santa Caterina ritratte
davanti ai levigati giardini di un paesaggio fiammingo
Da Siviglia a Granada il viaggio in treno dura poco più di due ore.
La luce della Sierra Nevada che incornicia la città si riverbera sulla cattedrale e sulla cappella reale, grande monumento funebre dei re cattolici dove si può ammirare la straordinaria quadreria devozionale, fiamminga e italiana, di Isabella di Castiglia. Basterà ricordare i piccoli Memling, come la magnifica Vergine con il Bambino, Santa Barbara e Santa Caterina, dipinta davanti ad armoniosi giardini del Nord, e l’Orazione nell’orto di Botticelli. Le tavole dei pittori fiamminghi, impreziosite dalla rivoluzionaria pittura a olio “inventata” da Van Eyck, arrivavano via mare dalle Fiandre e si congiungevano ai tesori fiorentini.

Granada, Cappella Reale. L'orazione nell'orto di Sandro Botticelli
Quello stesso chiarore di neve illumina al tramonto le case bianche di calce dell’Albayzín, antico quartiere arabo costellato di poetici carmen, piccoli giardini interni pieni di cipressi, aranci, gelsomini e passiflore.

Elegante dimora nell'Albayzín, antico quartire arabo costellato di carmen, giardini interni e misteriosi

Per la gioia degli occhi. Casa vestita di fiori e maioliche nell'Albayzín, antico quartiere arabo


Case bianche di calce all'Albayzín, ciascuna con piccoli giardini e terrazzi pieni di profumi
È un piacere perdersi al tramonto fra le sue calli, ammirare le case vestite di  maioliche e di fiori, scoprire che proprio lì, al culmine della collina, sorgeva la più antica moschea della città, e che da lassù si apre la più spettacolare veduta dell’Alhambra. Divisa dall’Albayzín dal torrente Darro, la cittadella “rossa” - questo il significato della parola araba Al Hamra - è uno straordinario monumento, paragonabile all’Acropoli di Atene.

Spettacolare veduta dell'Alhambra dall'Albayzín, l'antico quartiere arabo separato dalla "cittadella rossa" dal torrente Darro
Ma quello che ne fa un capolavoro assoluto sono i celebri giardini del Generalife (I giardini dell’Architetto), i tunnel di cipressi tosati a regola d’arte, i bacini d’acqua da cui sembra affiorare il Palazzo dei Nasridi con le sue meravigliose decorazioni, le vallette fiorite di Salvia farinacea, le fontane piene di loti e di ninfee in cui si specchiano i melograni, simbolo della città.

Il celebre Patio dei leoni all'Alhambra
Passeggiata al tramonto verso i Giardini del Generalife
Granada. Fioriture sapienti di rose e Salvia farinacea nei Giardini dell'Alhambra

Melograno, il simbolo di Granada, fra un cipresso e un tappeto di Cerastium
Ma a Granada c’è un altro giardino, che ha fatto sognare tutti coloro che, a partire dagli anni ’60 del Novecento, hanno scoperto i poemi, le canzoni e le ballate di Federico García Lorca nella preziosa traduzione di Carlo Bo per Guanda. È la Huerta de San Vicente, che circonda la casa dove visse il poeta fino alla sua uccisione nel 1936 per mano dei franchisti.

La casa di Federico Garcìa Lorca alla Huerta de San Vicente
Il nuovo parco dedicato al poeta
«Conosco il mistero che canti, cipresso:
sono tuo fratello nella notte e nella pena:
abbiamo i visceri pieni di nidi
tu d’usignoli e io di tristezza!».

Così, quasi profetico, scriveva
nel 1919 nella famosa  
Invocazione all’Alloro
Qui, intorno al villino 
circondato da viti, rose e cipressi
dove sono custoditi i ricordi, 
i manoscritti e gli schizzi
di Lorca mescolati alle sceneggiature 
e ai disegni dell’amico Salvador Dalì, 
il municipio granadino 
ha creato un nuovo parco pubblico 
dedicato al poeta. 



1930. "Verde que te quiero verde". Cipressi, campanili e case andaluse nel disegno di
 Federico Garcìa Lorca per la "Romanza sonnambula"




Cordoba
 
Antica fontana della Mezquita dove i fedeli facevano le abluzioni prima di entrare nella moschea


Antichissimo ulivo nel Patio de los naranjos, appena fuori dalla moschea

A Cordoba, ultima tappa del viaggio, nel cortile della Mezquita l’ulivo carico d’anni accanto alla fontana ci porta indietro nei secoli, quando la grande moschea, quella fantasmagorica foresta di marmo con le sue 1293 colonne che ricreavano l’immagine di un immenso palmeto, era ancora intatta: senza aver subito la brutale ferita dell’inserimento della cattedrale cattolica che ridusse di circa un terzo il celebre colonnato. Ma l’effetto resta lo stesso grandioso e sorprendente.

In questa foto e sotto: la superba "foresta" di palme nella cattedrale di Cordoba
Prima della trasformazione della moschea in una cattedrale cattolica le colonne erano 1293
Nei giardini dell’Alcázar una piccolissima corte fra curiosi disegni a mosaico ricorda il sito dove Cesare, durante la dominazione romana,  piantò un platano.

Un millennio e mezzo dopo un altro italiano, Cristoforo Colombo, finanziato da los Reyes Cristianos, con una piccola flotta formata dalla Pinta, la Niña e la Santa Maria parte alla scoperta di un nuovo immenso continente. Lo racconta la sua statua, che incorniciata da cipressi, fontane e giochi d’acqua si leva nella luce del tramonto fra la regina Isabella e Ferdinando d’Aragona, i creatori di quella potenza imperiale che avrebbe dominato il vecchio e il nuovo mondo.

La statua di Cristoforo Colombo fra Isabella la Cattolica e Ferdinando d'Aragona

Al tramonto: giochi d'acqua e di luci nei Giardini dell'Alcazar di Cordoba
Appena fuori dall’Alcázar invece un grande giardino di palme e d’aranci su un tappeto di tufo monta, ancora una volta, la sua superba guardia d’onore.

I colori del deserto. Palme, cipressi e aranci su un tappeto di tufo nel giardino pubblico davanti alla Mezquita
Se lo si osserva bene nella sua morbida eleganza ha i colori delle oasi del deserto. È l’Andalusia. 
Terra d’incanto che, in un fertile crogiolo di culture, ospita moschee, chiese e palazzi pieni di capolavori, circondati da parchi maestosi e giardini; ma è anche capace di regalare quiete e silenzio nei patii segreti delle case, fra profumi di gelsomino, fontanelle e deliziosi azulejos: le caratteristiche maioliche bianche e blu che hanno dato un’impronta alle dimore andaluse da quando furono portate in Spagna dagli arabi.

Plumbago capensis e Jasminum azoricum in un patio nel cuore di Cordoba



Note e precisazioni per le immagini

Tutte le foto sono di Marta Isnenghi, tranne la quarta e le riproduzioni di miniature o dipinti, tratti da libri o cartoline, per le quali sono precisate le singole provenienze.

Come si vede in queste due prime miniature di un anonimo della fine del Cinquecento, tratte dal manoscritto di Vâki’at-i Baburi, furono gli arabi  a costruire nel deserto la Fonte del Giardino della Fedeltà, a immagine del paradiso.
Dalla Fonte, popolata da uccelli, sgorgano quattro ruscelli che donano l’acqua alle acequia, piccoli canali collegati fra loro per il nutrimento delle piante che appaiono assai rigogliose. Scansioni dal libro Historia de los Parques y Jardines en España, Grupo FCC.

Siviglia

La cattedrale. Dalla Porta del Perdono, retaggio dell’antica moschea, si entra nel Patio de los naranjos, con i suoi 66 alberi d’arancio che circondano una fontana d’epoca visigota. 
La quarta foto con gli aranci maturi sugli alberi è tratta da sevillaonline.es

Cordoba, la Mezquita. Nel Patio degli aranci, dove un tempo c’era l’antico minareto della moschea, i canaletti chiamati acequia distribuiscono l’acqua da un albero all’altro.

Giardiniera dell’Alcazar di Siviglia con gatto ben nutrito.

Vasche e fontane d’acqua circondate da poetici vasi di rose nei giardini del Real Alcázar di Siviglia.

Dature in fiore dietro una seduta di maiolica nel Giardino delle Danze del Real Alcázar di Siviglia.

Patio de l’Hospital de los Venerables, edificio nel cuore di Siviglia costruito da Leonardo de Figueroa per ospitare gli anziani religiosi infermi o i pellegrini. La piccola fonte è situata nella parte bassa della gradonata di maiolica per poter attingere facilmente all’acqua di falda.

Granada

Cappella reale. Hans Memling, La Vergine con il Bambino, Santa Barbara e Santa Caterina ritratte davanti a poetici, ordinatissimi giardini delle Fiandre. Scansione da una cartolina delle Tablas de devocion de la Reina Isabel la Catolica. Primitivos Flamencos e Italianos en la Capilla Real de Granada.

Granada. Cappella reale.  Sandro Botticelli, L’orazione nell’orto.
Scansione da una cartolina delle Tablas de devocion de la Reina Isabel la Catolica. Primitivos Flamencos e Italianos en la Capilla Real de Granada.

Granada. Case vestite di fiori e maioliche nell’Albayzín, antico quartiere arabo.

Granada. Case bianche di calce nell’Albayzín, antico quartiere arabo costellato di carmen, i giardini interni pieni di cipressi, aranci, gelsomini e passiflore.

Granada. Spettacolare veduta dell’Alhambra dall’Albayzín, l’antico quartiere arabo separato dalla cittadella “rossa” dal torrente Darro.

Granada. Il celebre Patio dei leoni all’Alhambra.

Granada. Fioriture sapienti di rose e Salvia farinacea nei Giardini dell’Alhambra.

Granada. La casa del poeta Federico García Lorca nella Huerta de San Vicente.

Granada. Il nuovo parco pubblico dedicato a Federico García Lorca vicino alla casa del poeta.

Granada. Cipressi e palazzi andalusi disegnati nel 1930 da Federico García Lorca per la “Romanza sonnambula”. Scansione tratta da una cartolina della Fundacion Federico García Lorca.

Cordoba

La fontana per le abluzioni dei fedeli e l'antico ulivo nel Patio degli aranci davanti alla Mezquita.

Cordoba. La superba “foresta” di palme nella moschea.

Cordoba. La statua di Cristoforo Colombo fra i re cattolici.

Giochi d’acqua e di luce al tramonto nel grande parco del Real Alcázar.

I colori del deserto. Palme, cipressi e aranci su un tappeto di tufo nel giardino pubblico davanti alla moschea di Cordoba.

Plumbago capensis e Jasminum azoricum in un patio nel cuore di Cordoba.

Marta Isnenghi nel 2006 ha trattato lo stesso argomento in un altro articolo, intitolato La ballata dei giardini andalusi, sul n. 14 di Architettura del paesaggio, la rivista dell’Aiapp.

mercoledì 19 settembre 2012

«I venessia, gente grama e vagabonda» che rubava i kaki

 


Kaki in autunno a Villa Taranto nella bella foto di Francesca De Col Tana per la rassegna Editoria&Giardini, la bookmesse verbanese dedicata quest'anno al giardino giapponese

Ho passato l’adolescenza all’ombra di un albero di kaki.
Se ne stava nel mio giardino, a Milano, e m’aspettava. Quando tornavo da scuola, nei mesi più miti, appena finito di mangiare scendevo la scaletta di pietra e mi mettevo a leggere sotto la pianta. Protetta dalle foglie lucenti del mio albero, ho divorato tutto Salgari e tutto Conan Doyle.

Di fronte, fra me e la casa, c’era un grande ciliegio che si velava di candidi fiori primaverili, seguiti fra giugno e luglio da squisiti duroni.
Poi, quando mi sono sposata, sono andata a stare a Brera.
Tornata a vivere, vent’anni dopo, nella casa di famiglia, il caco e il ciliegio non c’erano più. E neppure l’albicocco davanti alla casa vicina, dove abita mia zia.

Forse quelle piante erano morte e mia madre e sua sorella s’erano lasciate incantare dall’idea di trasformare il giardino-frutteto del nonno in un piccolo parco. 
Al posto degli alberi da frutto ora troneggiano un gigantesco faggio rosso, una Ginkgo biloba, un’immensa quercia americana. Piante belle, non c’è che dire, soprattutto in primavera e in autunno. Ma divenute così enormi e invadenti che, con il passare degli anni, si sono mangiate i giardini, rivelandosi poco adatte ai piccoli spazi fra le mura che le ospitano.

Sono le mode della botanica.
Fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento i nostri nonni appagavano il loro esotismo con un albero «Made in Japan», il Diospyros kaki. Ufficialmente l’albero era arrivato in Occidente traversando tutta l’Asia sin dal 1796, ma era rimasto una rarità custodita negli Orti botanici. Secondo i fiorentini però il primo caco italiano è datato 1780 e fu piantato a Firenze negli splendidi giardini di Boboli.

Pannello di legno di kaki, con frutti e foglie, dipinto a Tokio nel 1874

La sua diffusione in Italia e sulle coste meridionali della Francia avviene a cavallo fra Otto e Novecento. Dopo la lunga autarchia dell’impero del Mikado durata oltre duecento anni, nel 1854 i porti giapponesi cedono alle pressioni russe e americane e si aprono finalmente ai contatti commerciali con il resto del mondo. 


Vincent Van Gogh, Ritratto del Père Tanguy, 1887
Gli influssi del Sol levante sono subito riconoscibili: nei quadri di Van Gogh (famoso a proposito il Ritratto del Père Tanguy con la parete tappezzata di stampe giapponesi, in una delle quali rosseggia proprio una pianta di kaki), come nelle più svariate espressioni dell’Art Nouveau, per non dimenticare la Butterfly pucciniana.

Intanto nei giardini e nei cortili dei nuovi ceti emergenti, il Diospyros, l’albero del «grano degli dei», diventa una presenza familiare.
Di frequente a ridosso di un muro esposto a mezzogiorno o in un angolo riparato vicino alla casa, questa pianta colora il paesaggio urbano e suburbano dell’epoca.
Contribuiscono al suo diffondersi il gusto che allappa deliziosamente il palato e l’aspetto attraente dei frutti; ma certo anche la maturazione in mesi dell’anno in cui la frutta scarseggia.


Tavola botanica del caco dipinta e incisa da Fitch John Nugent nel 1907





Con il perfezionamento delle tecniche colturali, con gli innesti su altre specie di ebenacee, ad esempio il Diospyros lotus, che garantiscono una maggior resistenza alle basse temperature invernali, l’albero di kaki inizia ad essere piantato nelle coltivazioni a conduzione familiare.
In particolare nelle regioni a clima temperato dove «L’inverno è più trasparenza d’aria che freddo; e in quell’aria sui rami scheletriti s’accendono centinaia di lampadine rosse: i cachi».
Dove i piccoli frutteti fra ottobre e novembre sembrano «un seguito di venditori di palloncini, col loro carico sospeso in aria: nove su quel ramo biforcuto, sei su quell’altro storto…». 

Lo scrittore Italo Calvino
Chi meglio 
di Italo Calvino
nella sua piccola storia
Alba sui rami nudi
pubblicata nel 1949
fra i trenta racconti
di Ultimo viene il corvo,
poteva descrivere
il ruvido incanto
delle fasce terrazzate
in Liguria?
Se il frutteto
non viene spogliato
dai ladri come
i «venessia, gente
grama e vagabonda»
che nella fiaba
derubano Pipin Maiorco, il contadino ligure che urla sdegnato «Tron di Dio! alzando i pugni verso le case del Paraggio alte sulla collina, una fila di case a un piano color muffa, come i villaggi di sughero dei presepi….», nei primi giorni di novembre i kaki vengono raccolti e messi ad ammezzire in casa vicino a un vassoio di mele profumate, che sviluppano gas utile al processo di maturazione.
Quest’uso domestico, sebbene ormai trasformato dalle più moderne tecnologie, è tutt’ora alla base della preparazione dei kaki nei grandi frutteti della Campania e della Romagna. Proprio da queste regioni provengono i frutti succosi che troviamo sui banchi di frutta e verdura. Raccolti appena prendono colore i kaki vengono sistemati in celle a temperature comprese fra i 20° e i 25°  e “gassati” con etilene, per favorirne la maturazione.

Ma se, come Pipin Maiorco, avete un po’ di spazio per piantare anche un solo caco nel giardino, non esitate. Potrete poi gustarne i doni più preziosi: l’ombra estiva per leggere o riposare e la poesia autunnale delle mille «lampadine rosse», da cogliere al momento giusto, prima della neve.

La bellezza dei kaki sotto la prima neve



Da Nagasaki a Verbania con l’albero della pace

I giardini giapponesi e un albero di kaki sopravvissuto alla bomba di Nagasaki sono il tema suggestivo dell’XI edizione di Editoria&Giardini, la bella festa dedicata ai libri, alle immagini e ai documentari che raccontano storie di alberi, di giardini e di coltivatori appassionati.
La rassegna, organizzata dalla Città di Verbania, con la consueta capacità organizzativa e creativa di tre signore del verde come Lorella Granzotto, Carola Lodari e Francesca De Col Tana, si svolge dal 22 al 30 settembre 2012 nella elegante sede di Villa Giulia. Grazie al clima e a quella sorta di vocazione che, senza ombra di dubbio, possiamo etichettare come genius loci, il territorio verbanese è punteggiato da ville e parchi ricchi di storia e di rare essenze esotiche venute dalla Cina e dal Giappone. Basterà ricordare i rododendri, le kalmie e le splendide camelie del lago, per non parlare delle preziose collezioni botaniche delle isole borromee, le perle del Lago Maggiore. 


Alberetti di kaki nel dolce Paesaggio d’autunno di Wang Huei, Parigi, Museo Guimet
Proprio qui, sulle coste del Verbano, è nato più di dieci anni fa il salone del libro dedicato al verde e al paesaggio (www.editoriagiardini.it). Molte e prestigiose le novità editoriali di quest’anno, come il bel volume Guardando i giardini giapponesi scritto da Carola Lodari per le Edizioni Tararà. Proprio qui, a Villa Giulia, sabato 22 alle 10 del mattino s’inaugura la rassegna con Paolo Pejrone, scrittore e paesaggista che quest’anno dedica un accorato intervento ai giardini verbanesi duramente colpiti dal tornado dello scorso agosto. Primi, fra tanti, i giardini di Villa Taranto e quelli di Villa San Remigio, sogno d’amore di due cugini, Silvio Della Valle di Casanova, musicista allievo di Wagner e Sofia Browne, la dolce sposa dublinese innamorata dei preraffaelliti. 

Verbania. Rigogliosa fioritura di azalee e rododendri a Villa San Remigio

Nel pomeriggio invece, alle 15, presso la Biblioteca Civica di Villa Maioni, a conclusione del progetto internazionale “Revive Time Kaki Tree Project”, si pianta  l’alberetto proveniente da Nagasaki alla presenza  dei bambini delle scuole che hanno partecipato all’iniziativa. Perché, non bisogna dimenticarlo, saranno proprio loro i futuri custodi del caco della pace. 

Ecco, in breve, l’origine di questa commovente cerimonia.
L’artista Tatsuo Miyajima nel 1995, mentre allestiva una mostra a Nagasaki, venne a sapere che un albero di kaki era sopravvissuto alla terribile bomba atomica del 7 agosto 1945. Dai semi dei suoi frutti il dottor Ebinuma Masayuki aveva ottenuto nuove piantine, dette “Bombed Kaki Tree jr”. Da una vittima sopravvissuta all’atomica nasceva così una nuova generazione di alberetti che il dottore donava, come simbolo di pace, ai piccoli in visita a Nagasaki. Dall’incontro fra l’artista e il dottore è scaturita l’idea de “La rinascita del tempo”, un progetto che attraverso l’arte e la vita dei nuovi kaki vuol comunicare ai bambini di tutto il mondo un forte messaggio di pace.


Arte, vita e natura: tamerice in fiore nel giardino di Villa San Remigio




Note e precisazioni per le immagini

Kaki a Villa Taranto, foto di Francesca De Col Tana tratta dall’opuscolo intitolato Nel Giardino giapponese, XI edizione di Editoria&Giardini, Verbania, 22-30 settembre 2012.

Diospyros kaki, Trustees of Royal Botanical Gardens, Kew. Il dipinto fa parte di una collezione di 26 pannelli di legno dipinti a Tokio nel 1874 e inviati in Inghilterra dal Giappone. Ciascuno è costituito da parti di tronco, rami e frammenti di corteccia della specie illustrata con la rappresentazione delle foglie e dei fiori.
Sono conservati ai Kew Gardens, nella Economic Botany Collection.
Foto tratta da Plant Artefacts - Japanese wood panel collection, http://www.flickr.com/photos/kewonflickr/sets/72157623507155459/with/4437442299/.

Vincent Van Gogh, Ritratto del Père Tanguy, 1887, Collezione Stavros S. Niarchos, New York. Julien François Tanguy era proprietario di un colorificio parigino. Van Gogh, come numerosi altri artisti, si riforniva presso di lui ed era diventato suo amico. Come ricorda Franco Fanelli sul Corriere della Sera del 3 settembre 2003 «era sopranominato père dai giovani artisti parigini per la sua età avanzata. Per lungo tempo fu lunica persona a esporre le tele di Van Gogh, assieme a quelle di Cézanne. L' artista gli fece due ritratti, usando in entrambi i casi come sfondo alcune stampe giapponesi». Tratto dal volume Van Gogh, Edizioni d’arte Garzanti.

Diospyros kaki, Famiglia delle Ebenaceae, tavola dipinta e incisa da Fitch John Nugent (1840-1927) nel 1907, Folio 8127, tratta da Curtis’s Botanical Magazine, Vol. 133, 4ª serie, volume 3. - Parigi, Muséum national d’Histoire naturelle, biblioteca centrale.

Lo scrittore Italo Calvino, come appare sulla copertina del II volume dei Meridiani, a lui dedicati.

Kaki sotto la neve, foto tratta dal libro Grande atlante degli alberi di Maria Vittoria Divincenzo e Francesco Bianchini, Arnoldo Mondadori Editore.

Wang Huei (Dinastia Ch’ing), Paesaggio d’autunno, Parigi, Museo Guimet. Particolare tratto dal libro Pittori cinesi, di Giuseppe Argentieri, Mondadori.

Villa San Remigio, Verbania, fioriture di azalee, rododendri e romantiche tamerici nelle due belle foto di Francesca De Col Tana.


Marta Isnenghi il 5 dicembre 1985 ha pubblicato sull’Unità, nelle pagine dedicate a Milano e Lombardia, un altro articolo sul caco, intitolato “Le mode della botanica”, nella rubrica Linea verde.







 


 

 
 



giovedì 13 settembre 2012

Le magnolie di Giuseppina e i kaki di Verdi

 
Giuseppe Verdi in un ritratto giovanile di Stefano Barezzi


Centoquarantacinque anni fa, il 13 settembre del 1867, Giuseppe Verdi scriveva a Paolo Marenghi, il factotum di Sant’Agata, dandogli precisi ordini per la costruzione di un «berceau» nel giardino per «coprire il gioco delle bocce». A completamento della missiva, inviava tre piccoli schizzi.
Verdi si trovava a Parigi. Il 21 marzo dello stesso anno era andata in scena all’Opéra la prima rappresentazione in francese del Don Carlos. Mentre la prima italiana sarebbe avvenuta di lì a poco, il 27 ottobre, al Gran Teatro Comunale di Bologna.

A raccontare di quella lettera al Marenghi, che nelle sue mansioni prendeva spesso iniziative che scontentavano il Maestro, è Francesco Cafasi, scrittore e storico dell’agricoltura. Ne accenna nel suo libro Giuseppe Verdi, fattore di Sant’Agata, pubblicato nel 1994, quasi come pendant al volume di Maurizio e Letizia Corgnati dedicato -  una decina d’anni prima - ad Alessandro Manzoni, fattore di Brusuglio.
Cafasi nota che la lettera di Verdi era «listata di nero per la morte del padre Carlo, avvenuta nel gennaio dello stesso anno». Quel padre che aveva aiutato il figlio quando, di ritorno dal primo periodo parigino, aveva messo gli occhi sulla proprietà di Sant’Agata, nel piacentino.

Sant'Agata, ingresso alla Villa da L'Illustrazione Italiana, 1887
Era il I Maggio del 1848.
Quel giorno il giovane 
compositore grazie
a una permuta       
e all’aiuto del padre aveva 
acquistato la tenuta dove avrebbe
trascorso lunghi periodi 
della sua esistenza 
con Giuseppina Strepponi,
famosa soprano divenuta 
sua compagna 
dopo la tragica morte 
dei due figliolini 
e della prima giovane moglie,
Margherita Barezzi.

Verdi scambiò il Pulgaro, 
ovvero il “pulciaio”, un podere che aveva comprato quattro anni prima alle Roncole con il compenso ottenuto per la prima dell’Ernani alla Fenice di Venezia e divenne proprietario delle «possessioni» della signora Rosa Guindani e dei suoi figli, i signori Merli: « possessioni assicurate in biolche 350… con tutte le sementi, invernaglie, pali per le viti, di più le quattro grandi botti di circa 50 brente l’una, tre delle migliori e più grandi tine e la gran mesta o macchina nell’Ongina per irrigare l’ortaglia… ».

Là, fra i filari di ciliegi e gli esotici noci  venuti dal Caucaso, il Maestro si sarebbe dato anima e corpo ai lavori della campagna. Una passione che, negli anni in cui si costruiva l’Italia, aveva già contagiato Manzoni, Cavour e Garibaldi. Sull’onda di un forte interesse di stampo illuministico per le scienze agrarie, ma anche grazie alla visione romantica della natura, i quattro padri della patria avevano una vocazione comune: la terra.                                                                   

Sant'Agata, il romantico viale dei platani aperto sui campi, da L'Illustrazione Italiana, 1887
                                                                         
A Sant’Agata Verdi si alzava all’alba, scriveva, componeva, inviava cesti di rose all’amica Clarina Maffei, ma soprattutto si dedicava alle colture dei campi e alla creazione del parco.  Dirigeva inoltre, con piglio darchitetto, il restauro della villa e delle case coloniche destinate ai contadini.
La contessa Clara Maffei, ovvero l'arte dell'amicizia, ritratta da Hayez

          

«Il suo amore per la campagna è divenuto mania, follia, rabbia, furore, tutto ciò che si può immaginare di più esagerato. Egli si alza al nascere del giorno per andare a esaminare il grano, il mais, la vigna. Rientra morto di fatica e allora come trovare il modo di fargli prendere la penna?». Ecco quanto scriveva all’editore parigino Léon Escudier nove anni dopo, il 4 luglio 1857, Giuseppina Strepponi.


Giuseppina Strepponi in un delizioso ritratto di K. Gyurkovich
 
Preso dai lavori nei campi, dalla costruzione di argini per difenderli dalle piene del Po, dai cavalli e dalle vacche che lui stesso valutava e acquistava nei mercati fra Piacenza e Parma, e soprattutto dal divertimento che gli dava la creazione del giardino, Verdi sembrava trascurare il lavoro di compositore. 

All’origine di quella passione c’era, certo, un forte attaccamento alla terra natìa. Del resto Giuseppe Fortunino Francesco Verdi era nato fra le nebbie, il 10 ottobre 1813, nella modestissima casa di Roncole di Busseto, vicino a Parma. La famigliola viveva al primo piano, appena più salubre, dato che le alluvioni del Po erano frequenti.                     
Al piano terreno suo padre teneva una piccola osteria con bottega dove vendeva sale e commestibili, mentre la madre Luigia Uttini, che faceva la filatrice, si occupava anche della casa e dell’orto.


                
Angelo Formis, La casa natale di Giuseppe Verdi alle Roncole di Busseto

Ma, oltre alle esortazioni della Peppina, come il musicista chiamava affettuosamente la compagna che lo aveva pregato con insistenza di trovare per loro una casa per stabilirsi in campagna, un ruolo rilevante in quella decisione indubbiamente l’ebbe il piccolo giardino parigino di Passy, nido d’amore del Maestro e Giuseppina, dopo che nel 1847 s’erano rivisti sulle rive della Senna.

Verdi allora era in procinto di dirigere all’Opéra Jérusalem, adattamento in francese, con libretto di Royer e Vaëz, de I Lombardi alla prima Crociata. È là, in quel sobborgo parigino, dove poco dopo si sarebbe stabilito anche Rossini,  che i melomani collocano la nascita della verdissima vocazione verdiana. Una sana mania che il musicista coltiverà tutta la vita.

Basta andare in una bella giornata di fine estate a Sant’Agata e gironzolare fra il giardino e il frutteto per capire come Verdi, nato nella povera casa di Roncole di Busseto, ma diventato grazie al suo genio cittadino del mondo, abbia saputo condensare nella profumata residenza di campagna fra il Po, l’Arda e l’Ongina il gusto per  il nuovo stile all’inglese e  la passione per l’agricoltura, favorita ove possibile con le prime innovazioni tecnologiche. 


Il laghetto con i romantici cipressi di palude, che formano
alla base i pneumatofori, detti anche "ginocchioni"


Il parco, da lui ideato, è il delizioso campionario di un giardino romantico.
Il piccolo ponte rosso sul lago non ha nulla da invidiare al ponticello “alla giapponese” costruito poi, negli anni ’90, da Monet ai bordi dello stagno di Giverny.
Il laghetto è circondato dai Taxodium distichum, conifere diritte e imponenti che prediligono gli argini dei fossati. Chiamati cipressi di palude, questi alberi provenienti dalla costa orientale degli Stati Uniti, sviluppano alla base i “pneumatofori”, sorta di protuberanze-boccaglio che servono alle piante – sostengono i botanici - per catturare ossigeno là dove il terreno argilloso e compatto rischierebbe di provocare l’asfissìa delle radici.
Ma altre piante il Maestro ordinava da Sant’Agata l’11 marzo 1868 alla Ditta dei Fratelli Burdin di Milano: «120 Platani, 6 Pinus laricio, 3 Taxus hibernica, 1 Pinus Benthamiana, 1 Sequoia gigantea, 1 Quercus fastigiata, 1 Quercus Banisterii, 2 Magnolia grandiflora, 1 Maclura, 6 Aleagnus reflexa, 12 Kalmia, 12 Anemoni japonica», per citare solo le più suggestive fra quelle elencate da Cafasi nel suo libro.

La «pozzanghera che onorerò», scriveva Verdi all’amica Clara Maffei, «col pomposo titolo di Lago quando potrò avere acqua per riempirla», ricorda oggi altri esempi dell’epoca: dal laghetto dei Giardini Pubblici disegnato a Milano dal Balzaretti al romantico stagno dei Giardini Margherita a Bologna. Ma non è vero, come favoleggia la gente del Po, che lo specchio d’acqua  abbia la forma di una G intrecciata alla V come un liquescente monogramma.
La colonnina di pietra che ricorda l'amato Lulù,
piccolo maltese dal pelo candido



Voluta da Verdi
e da Giuseppina            
è invece la tomba di Lulù, 
piccolo maltese dal pelo candido 
sepolto nel giardino sotto 
una colonnina di pietra
con la dedica: 
«Alla memoria d’un vero amico». 
E insieme a Black, Yvette e Moschino, gli altri
amatissimi cani da caccia
del Maestro, tale doveva essere se,
all’interno della casa
fra gli spartiti, le lettere,
le caricature e i ricordi,
campeggia un “ritratto”
della bestiola firmato Palizzi. 





Black, Yvette e Moschino, adorati cani da caccia di Verdi in una cartolina di L. Metlicovitz edita da Giulio Ricordi nel 1913

Ma la chicca del giardino, squisitamente gozzaniana, è l’aiuola a forma di cuore che si riempie fra aprile e maggio di teneri tulipani gialli e rosa antico. Attorno rimangono le eleganti chaise-longue smaltate di bianco dove Verdi amava riposare. Le ombreggia un salice piangente, rimembranza forse della “Canzon del Salice” cantata da Desdemona nell’ultimo atto dell’Otello. 
 
Le eleganti chaise-longue del Maestro davanti all'aiuola dei tulipani. Sullo sfondo e qui sotto il salice piangente







A primavera il giardino si veste di luce. Sono le infiorescenze degli ippocastani e delle paulonie. Più tardi il dolce effluvio dei tigli, che Gian Carlo Conti, poeta di Parma, definiva con nostalgia il «profumo di casa mia» e l’aroma citrino delle magnolie dicono che è in arrivo l’estate.
  

Le magnolie per Giuseppina

Come Manzoni, che le aveva piantate nel giardino milanese di via Morone, Giuseppina adorava i fiori candidi e carnosi della Magnolia grandiflora.

Superbo, purissimo fiore di Magnolia grandiflora,
pianta prediletta dal Manzoni e da Giuseppina Strepponi


Per compiacere l’amata, Verdi chiede un giorno ad Angelo Mariani, direttore d’orchestra e compositore, di procurargliene una decina per Sant’Agata. «Dopo aver girato tutti i giardinieri e le serre di Genova», il povero Mariani si reca alla stazione con il suo boschetto ben confezionato. «Ma non ha calcolato» spiegano Maurizio e Letizia Corgnati nel bel libro Alessandro Manzoni, fattore di Brusuglio, «le dimensioni del bagagliaio. Il pacco, alto tre metri, non ci sta. Il capostazione consiglia Mariani di portarsi via l’enorme ingombro e di ritornare la mattina dopo per caricare il tutto sul merci». Le piante sarebbero state collocate in un vagone aperto, coperte da un telone, poiché «erano impagliate e le scintille che provenivano dalla locomotiva avrebbero potuto procurarvi un incendio». Mariani scrive la sera a Verdi raccontandogli le sue peripezie. Verdi gli risponde: «Se non sei partito, se non hai spedito le piante, invece di dieci mandane dodici… ». 

Angelo Mariani in un disegno di Focosi conservato al Museo della Scala

L’amicizia fra i due s’incrinò. La causa non furono le magnolie, ma artistici dissapori e romantiche rivalità per la bella Teresa Stolz, famosa Aida e splendida interprete del Requiem. A lei Verdi dedicò la prima pagina della partitura, conservata al Museo teatrale della Scala di Milano.

Verdi nella quiete di Sant'Agata contempla il "Lago" dialogando con i due cigni bianchi

Composta nella quiete di Sant’Agata e diretta trionfalmente dall’autore  nella chiesa di San Marco a Milano la sera del 22 maggio 1874, nel primo anniversario della morte dello scrittore, la Messa da Requiem è il magnifico, commovente  addio dell’agnostico Verdi al credente Manzoni. Il primo con la sua musica, i coretti, i drammi, le passioni, i grandi personaggi femminili, il secondo con la lingua colta e popolare, i suoi eroi, le sue descrizioni del paesaggio  lombardo, i racconti della peste e di Milano, hanno contribuito a fare dellItalia una nazione.

Manzoni e Verdi  accostati in un'incisione del 1874 in occasione della Messa da Requiem. Museo teatrale della Scala



  
E i kaki per il Maestro

Verdi andava matto per i kaki. Ecco la sua lettera di ringraziamento ai Fratelli Ingegnoli, proprietari della ditta di giardinaggio fondata nel 1817. Primi a importare a Milano quegli alberetti dal Giappone, ne avevano inviato una cassettina a  Sant’Agata.


Catalogo dei Fratelli Ingegnoli del 1896 con una giapponesina che offre i kaki


Sant’Agata,
Busseto
21 Marzo 1888

«Ricevetti la cassettina con
entro i sei kaki, e la
gentilissima lettera.
Io non posso che ringraziarvi
della squisita gentilezza ed
augurarvi che presto sia anche da noi
conosciuta ed apprezzata
questa pianta i cui frutti
sono splendidi.
Con tutta stima saluto».
Dev.
G. Verdi


Verdi nel 1887 in un bel ritratto a pastello di Francesco Paolo Michetti
                                                               





Note e precisazioni sulle illustrazioni e le foto


Giuseppe Verdi nel 1836. Disegno di Stefano Barezzi.
Sul verso la scritta “Verdi Giuseppe ritratto da Stefano Barezzi
fratello di Antonio”.
Conservato a Busseto, Casa Barezzi - “Amici di Verdi”.
Scansione tratta dal libro Per amore di Verdi, 1813-1801 - vita, immagini, ritratti, Istituto nazionale di studi verdiani. Grafiche Step Editrice, Parma.

Sant’Agata, Ingresso principale alla villa, incisione da “L’Illustrazione italiana”, numero unico «Verdi e l’Otello», 1887. Tratta dal libro di Francesco Cafasi Giuseppe Verdi fattore di Sant’Agata, Fondazione Cassa di Risparmio di Parma e Monte di Credito su pegno di Busseto.

Sant’Agata, Villa Verdi, Il romantico viale dei platani verso i campi, incisione da “L’Illustrazione italiana”, numero unico «Verdi e l’Otello», 1887. Tratta dal libro di Francesco Cafasi Giuseppe Verdi fattore di Sant’Agata, Fondazione Cassa di Risparmio di Parma e Monte di Credito su pegno di Busseto.

Francesco Hayez, ritratto della Contessa Clara Maffei (1814-1886) conservato a Riva del Garda, Museo Civico. Scansione tratta dal libro Per amore di Verdi, 1813-1801 - vita, immagini, ritratti, Istituto nazionale di studi verdiani. Grafiche Step Editrice, Parma.

K. Gyurkovich, ritratto di Giuseppina Strepponi (1815-1897), famosa soprano e compagna di Verdi. Conservato a Busseto, Casa Barezzi - “Amici di Verdi”. Scansione tratta dal libro Per amore di Verdi, 1813-1801 - vita, immagini, ritratti, Istituto nazionale di studi verdiani. Grafiche Step Editrice, Parma.

Angelo Formis, La casa natale di Giuseppe Verdi, olio su tela, 78 x 50 cm, conservato a Milano al Museo teatrale alla Scala. Scansione tratta dal libro Giuseppe Verdi, l’uomo, l’opera, il mito - A cura di Francesco Degrada, Skira.

Il laghetto del giardino di Villa Carrara Verdi a Sant’Agata, foto di Marta Isnenghi

La tomba di Lulù, piccolo maltese dal pelo candido sepolto nel giardino sotto una colonnina di pietra con la dedica: «Alla memoria d’un vero amico», foto di Marta Isnenghi.

Black, Yvette e Moschino, cartolina illustrata da L. Metlicovitz, edita da Giulio Ricordi nel 1913. Tratta dal libro di Francesco Cafasi Giuseppe Verdi fattore di Sant’Agata, Fondazione Cassa di Risparmio di Parma e Monte di Credito su pegno di Busseto.

Aiuola a forma di cuore, che si riempie fra aprile e maggio di teneri tulipani gialli e rosa antico, ombreggiata dal salice piangente. In primo piano le chaise-longue e i divanetti del maestro.  Foto di Marta Isnenghi.

Il romantico salice piangente. Foto di Marta Isnenghi.

Magnolia grandiflora tratta da hoardedordinaries.wordpress.com.

Angelo Mariani. Disegno di Focosi. Milano, Museo teatrale alla Scala.
Tratto da Giuseppe Verdi, Autobiografia dalle lettere, a cura di Carlo Graziani, A. Mondadori Editore.

Incisione con Verdi e Manzoni, accostati in occasione della Messa funebre dedicata dal M. G. Verdi ad A. Manzoni. 1874, Milano, Museo teatrale alla Scala. Scansione tratta dal libro Giuseppe Verdi, l’uomo, l’opera, il mito - A cura di Francesco Degrada, Skira.

Verdi e i cigni, davanti al laghetto nella quiete di Sant’Agata. Cartolina illustrata da L. Metlicovitz, edita da Giulio Ricordi nel 1913. Tratta dal libro di Francesco Cafasi Giuseppe Verdi fattore di Sant’Agata, Fondazione Cassa di Risparmio di Parma e Monte di Credito su pegno di Busseto.

Fratelli Ingegnoli, Milano 1896. Catalogo delle Sementi e Piante.
Stab. A. Bertarelli - Milano, illustrazione tratta dal libro Fratelli Ingegnoli, I segreti del Giardiniere, Rizzoli.
Francesco Paolo Michetti, Ritratto di Giuseppe Verdi, 1887, pastello su cartone, 54 x 40 cm, Busseto, Collezione Stefanini. Scansione tratta dal libro Giuseppe Verdi, l’uomo, l’opera, il mito - A cura di Francesco Degrada, Skira.

Marta Isnenghi ha pubblicato un altro articolo  sullo stesso tema, intitolato Un giardino Verdissimo, sul Corriere della Sera del 30 marzo 2001.